La Corte di Cassazione riprende il tema della nullità degli atti discriminatori e ne precisa i contorni anche alla luce della direttive europee e della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE).Inizio modulo
Nel caso di specie l’azienda aveva disposto accertamenti investigativi a carico di un lavoratore con funzioni sindacali e lo aveva poi licenziato per i fatti così accertati, ritenuti di rilevanza disciplinare. Il licenziamento è stato però ritenuto nullo in quanto discriminatorio.
La Corte, al riguardo ha statuito innanzitutto che “la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali la L. n. 604 del 1966, art. 4, l’art. 15 Stat. Lav. e la L. n. 108 del 1990, art. 3, nonchè di diritto Europeo, quali quelle contenute nelle Direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, sicchè non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., nè la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima” quale la ricorrenza di una grave fatto disciplinare. Il licenziamento in questione, quindi, sarebbe stato nullo anche se i fatti contestati fossero risultati veri.
Ha poi aggiunto che
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in tema di licenziamento discriminatorio, esiste un regime probatorio attenuato rispetto a quello ordinario introdotto dal recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, per cui “incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso”. Nel caso di specie, “il lavoratore aveva dimostrato il fattore di rischio (essere attivista sindacale) ed il trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato ad altri soggetti in condizioni analoghe e senza responsabilità sindacali, ovvero l’avere la società disposto indagini investigative nei suoi confronti e non nei confronti di altri ISF addetti alla medesima linea e che operavano con le sue stesse modalità di lavoro; … aveva dedotto una correlazione significativa tra tali elementi (trattamento sfavorevole in ragione dell’attività sindacale, in un contesto particolarmente conflittuale collegato in tale periodo al suicidio di un collega ed al rinvenimento di un suo messaggio diretto alla società, che collegava il suicidio allo stress lavorativo, con connessi contenziosi relativi ad altra sanzione disciplinare collegata a tale vicenda ed a ricorso ex art. 28 legge Stat. Lav. del sindacato di cui l’odierno ricorrente era delegato) …. La società non aveva, invece, dimostrato la ragione per la quale aveva disposto accertamenti investigativi che avevano portato ad evidenziare incongruenze ed anomalie nell’orario di lavoro e nei 2 rimborsi spese a base del licenziamento disciplinare, così prestandosi al sospetto di un intento persecutorio legato all’attività sindacale sgradita svolta dal lavoratore”.
Per questi motivi la Corte ha confermato le pronunce dei giudici d’appello.
Ne deriva la necessità di avere sempre una valida giustificazione quando si dispongono indagini ispettive che riguardano solo alcuni lavoratori e non altri, specie se si tratta di soggetti investiti di particolari funzioni con i quali possano essere insorti conflitti nel breve periodo.
Studio Legale Stolfa Volpe