La sezione tributaria della cassazione (sbagliando) piccona la certificazione; ma solo in ambito tributario

La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione interviene, con due ordinanze (Cass. 23 e 29 luglio 2024, rispettivamente nn. 20421 e 21090), pronunciate nella stessa udienza, con identica composizione e fra le medesime parti, su un tema delicatissimo e poco esplorato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, circostanza quest’ultima che avrebbe dovuto indurre, forse, la Corte, a maggiore prudenza nell’adottare le sue statuizioni.

La certificazione è un istituto che sta avendo recentemente una intensa diffusione specie in tema di appalti poiché le aziende sono in cerca di qualche certezza a seguito delle recenti novità legislative (invero poco chiare, ancora poco esplorate e prive tuttora delle disposizioni attuative) introdotte con il D.L. 19/2024. In questo contesto, l’intervento della Sezione Tributaria appare potenzialmente dirompente in quanto riduce al lumicino, sostanzialmente vanificandoli, gli effetti della certificazione in campo tributario. La conseguenza sarebbe che all’amministrazione tributaria sarebbe consentito ignorare i provvedimenti di certificazione in sede amministrativa e potrebbe procedere al recupero coattivo delle presunte obbligazioni tributarie senza attenersi alle norme previste dagli art. 75 ss., del D. Lgs. 276/2003.

Nel caso di specie, contraddicendo la Commissione Regionale, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo l’operato dell’amministrazione che aveva effettuato un acceso ispettivo e proceduto al recupero tributario ritenendo illegittimo un appalto che era stato, tuttavia, oggetto di certificazione ex artt. 75 ss., del D. Lgs. 276/2003. In realtà, a ben vedere, la sentenza, concentrando la disamina su alcune eccezioni di parte, pronuncia alcune statuizioni abbastanza ovvie e altre palesemente errate o almeno di dubbia fondatezza. Vediamole analiticamente.

Le statuizioni della Corte che emergono dalle due ordinanze sono le seguenti:

a) la certificazione incide esclusivamente sul piano civilistico e cristallizza, quindi, la qualificazione del rapporto solo nell’ambito delle relazioni intercorrenti fra le parti del medesimo;

b) la certificazione non sottrae, invece, al giudice tributario il potere di qualificazione del rapporto e quindi di valutare la legittimità o meno dell’appalto quale presupposto dell’obbligazione tributaria, attesa la sua natura pubblicistica;

c) il giudice tributario deve valutare la certificazione quale mero fatto e quindi come uno degli elementi che compongono il quadro probatorio complessivo, potendo disattendere la qualificazione operata dalle parti anche se confermata in sede di certificazione;

d) tale potere/dovere del giudice tributario non è impedito dalla mancata impugnazione della certificazione davanti al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro ai sensi dell’art. 80, D. Lgs. 276/2003 né (questa statuizione è solo implicita) dal mancato esperimento preventivo del tentativo di conciliazione previsto dall’art. 80. 

Orbene: la statuizione sub a) è palesemente errata (in quanto contrastante col testo legislativo); quelle sub b) e c) sono ovvie e valgono per qualsiasi giudice; quella sub d) è fortemente dubbia.

Ma andiamo con ordine.

Effetti della certificazione nei rapporti civilistici e pubblicistici.

Le due sentenze affermano, con disarmante tranquillità, che il complesso normativo posto dagli artt. 75 ss. del D. Lgs. 276/2003, ha efficacia solo sul rapporto civilistico. Per certi versi sembrerebbero, anzi, ritenere che la certificazione produca effetti vincolanti per il giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro chiamato a conoscere della qualificazione del rapporto.

Nessuna di queste due statuizioni sembra corretta. L’art. 79, primo comma, prevede infatti testualmente: “Gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione del contratto di lavoro permangono, anche verso i terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell’articolo 80, fatti salvi i provvedimenti cautelari”. Il generico riferimento ai “terzi” oltre che quello (implicito) alle parti, non consente all’interprete di introdurre eccezioni: gli effetti della certificazione sono quindi destinati a prodursi (anche) verso ogni soggetto pubblico o privato diverso dalle parti e, dunque, anche verso enti o autorità pubbliche. Non a caso, si è sempre ritenuto che esso riguardi anche gli enti previdenziali e assistenziali (INPS e INAIL, innanzitutto) ai quali si ritiene pacificamente sia inibito il potere di adottare provvedimenti amministrativi che statuiscano in contrasto con il provvedimento certificatorio. E non si comprende per quale ragione ciò non dovrebbe valere anche per gli enti preposti all’accertamento dell’obbligazione tributaria, atteso che questa ha la medesima natura pubblicistica di quella contributiva. Ne consegue che, anche nei confronti dell’agenzia delle entrate, il complesso normativo di cui agli artt. 75 ss. del D. Lgs. 276/2003 pone le medesime regole e limitazioni; e la principale è che resta inibita la possibilità di accertare con provvedimento amministrativo una situazione giuridica in contrasto con la certificazione.

Se l’amministrazione volesse far valere l’obbligazione tributaria a suo parere derivante da tale diversa situazione giuridica, dovrebbe quindi impugnare il provvedimento certificatorio dinanzi al giudice del lavoro ex art. 80, D. Lgs. 276/2033, così come devono fare, e fanno normalmente, ad esempio, sia l’INPS che l’INAIL. È proprio questo il fondamentale passaggio esegetico che le due sentenze in commento hanno omesso di considerare: esse, infatti, hanno ritenuto legittimo un verbale della guardia di finanza, da cui il contenzioso ha avuto origine, che aveva ignorato la certificazione. Proprio quell’atto, invece, doveva essere ritenuto illegittimo e disapplicato, con conseguente illegittimità di ogni atto successivo; diversamente ne verrebbe vanificato il principale effetto dell’istituto della certificazione.

Nessuno ha mai pensato, invece, che il provvedimento certificatorio possa in alcun modo vincolare il giudice, neanche quello ordinario del lavoro e neanche nei rapporti civilistici. Il principale effetto della certificazione, infatti, lo si ripete, è quello di inibire solo un accertamento difforme in sede amministrativa, ferma restando la valutazione definitiva che resta ovviamente rimessa al giudice in sede giurisdizionale; ma ciò è possibile solo mediante le speciali norme sostanziali e processuali di cui all’art. 80 secondo cui:

– l’erronea qualificazione del contratto, la difformità tra programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione o i vizi del consenso devono essere fatti valere  dinanzi al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro (comma 1) previo esperimento del tentativo di conciliazione obbligatorio ai sensi dell’articolo 410 c.p.c. (comma 4);

– la violazione del procedimento o l’eccesso di potere devono essere fatti valere dinanzi al TAR (comma 5).

A queste regole dovrà, a nostro avviso, attenersi anche l’Agenzia delle Entrate per far valere l’eventuale obbligazione tributaria a suo parere derivante dall’atto se questo risulti certificato.

Deve essere chiaro, comunque che le statuizioni operate dalla Sezione Tributaria della Cassazione – che il nostro studio contrasterà nelle sedi competenti per le ragioni innanzi succintamente esposte – devono ritenersi strettamente circoscritte all’ambito dell’accertamento dell’obbligazione tributaria. Esse non valgono per le obbligazioni civilistiche né per quelle contributive, proprio perché la Corte, appunto, le circoscrive espressamente all’accertamento dell’obbligazione tributaria e le fonda esclusivamente sulla (francamente debole) argomentazione concernente la ratio espressa nella norma (ridurre il contenzioso in materia di lavoro che ad avviso della Corte non riguarderebbe l’obbligazione tributaria).

Le prassi ispettive, ormai consolidate, di INPS e INAIL nonché dello stesso Ispettorato del Lavoro, del resto, sono correttamente orientate nel ritenere inibito ogni accertamento amministrativo in caso di contratto certificato e nell’assoggettare l’impugnazione giudiziale della certificazione alle regole di cui all’art. 80.

Il consiglio, per tutti gli operatori, è quello comunque di continuare a inserire nei ricorsi contro i verbali di pubbliche autorità che dovessero accertare obbligazioni tributarie ponendosi in contrasto con provvedimenti certificatori anche uno specifico motivo di nullità derivante dalla violazione dell’art. 80, nella speranza di poter modificare in sede giurisdizionale questo primo orientamento della Suprema Corte.

Avv. Francesco Stolfa

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