Tribunale di Bolzano, Sezione lavoro, 30 maggio 2022
Vi racconto una storia davvero emblematica di quel che significa fare impresa oggi in Italia, ma anche svolgervi una attività professionale.
Come si sa, nel settore dello Spettacolo, per gli impiegati (e per alcuni lavoratori autonomi) la normativa vigente a partire dagli anni 40 (art. 6 della L. 11 gennaio 1943, n. 138;D. Lgs. Lgt. n. 213/1946; art. 2 del DLCPS n. 708/1947, istitutivo dell’ENPALS; art. 31, L. n. 41/1986) ha previsto che laddove la contrattazione collettiva sancisca il diritto del lavoratore in malattia ad essere retribuito dal datore di lavoro, ciò escluda ogni erogazione a carico degli enti assistenziali pubblici. Ne derivava, per orientamento interpretativo consolidato, l’esonero del datore di lavoro dal relativo onere contributivo.
Questa interpretazione della disciplina vigente è andata avanti per decenni finchè, a partire dal 1° gennaio 1980, l’assistenza malattia, anche per i lavoratori dello Spettacolo, passò all’INPS. Dopo qualche anno, l’Istituto decise, inopinatamente, di modificare radicalmente i precedenti, consolidati orientamenti e cominciò a rivendicare il pagamento dei contributi di malattia, pur in assenza di prestazione. Ciò provocò ovviamente un contenzioso che finì in Cassazione, provocando però sentenze contraddittorie. Nel 2003, intervennero, infine (si fa per dire, perché in queste cose non c’è mai una fine) le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che con la nota sentenza del 27/06/2003, n. 10232, sanciscono il principio opposto: i contributi per l’assicurazione malattia le aziende dello spettacolo devono pagarli anche per quei lavoratori per i quali la contrattazione collettiva imponga l’obbligo retributivo direttamente a carico dell’azienda, in applicazione di un principio solidaristico.
Il legislatore, tuttavia, resosi conto delle rilevanti e negative conseguenze economiche che sarebbero derivate al settore dalla decisione della Corte, intervenne con una norma di interpretazione autentica (l’art. 20, comma 1, del D.L. n. 112/2008, convertito nella L. n. 133/2008) a ribadire l’orientamento esegetico opposto. La nuova norma esplicitò e codificò l’orientamento esegetico precedente e cioè che il secondo comma, dell’art. 6, della legge 11 gennaio 1943, n. 138, si interpreta nel senso che i datori di lavoro che avessero corrisposto per legge o per contratto collettivo, anche di diritto comune, il trattamento economico di malattia ai propri dipendenti, con conseguente esonero dell’Istituto nazionale della previdenza sociale dall’erogazione della relativa indennità, non sono tenuti al pagamento della relativa contribuzione.
In piena coerenza con questa ricostruzione, si espresse anche la circolare dell’INPS n. 114 del 30 dicembre 2008 in cui l’Istituto sembrava rassegnato alla “sconfitta”: nell’illustrare, infatti, le novità recate dall’art. 20 del D.L. n. 112/2008 (versione originaria) affermava espressamente che “con effetto dal 1° gennaio 2009 l’Istituto erogherà le prestazioni economiche di maternità (congedo di maternità/paternità, congedo parentale e riposi giornalieri “per allattamento” di cui al D.Lgs. 151/2001) e le indennità per permessi di cui al l’art. 33 della legge 104/92 a tutti i lavoratori dipendenti, ivi compresi il personale con qualifica dirigenziale, delle imprese di cui al precedente punto 2. Dalla stessa data verrà altresì corrisposta l’indennità giornaliera di malattia ai lavoratori dipendenti con qualifica di operaio e apprendista, nonché per le qualifiche impiegatizie, nei casi previsti per il settore di appartenenza delle imprese medesime”.
La legittimità costituzionale di tale norma venne, poi, confermata esplicitamente dalla Corte Costituzionale con sentenza del Corte cost., 12/02/2010, n. 48 in cui testualmente si afferma: “La norma impugnata, invece, introduce una nuova disciplina del contributo previdenziale relativo all’assicurazione contro le malattie. Essa, pertanto, costituisce espressione della discrezionalità di cui gode il legislatore nella conformazione dell’obbligazione contributiva”. Nessuna violazione del principio solidaristico (a suo tempo posto a base della pronuncia a SS.UU.) sembrava quindi più ipotizzabile.
Storia finita, dunque? Macchè: siamo in Italia e stiamo parlando di un contenzioso con l’INPS; queste storie non finiscono mai.
Pochi anni dopo interviene l’art. 18, comma 16, del D.L. 6 luglio 2011, n. 98 il quale introduce il comma 1-bis, nell’art. 20, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, che recita testualmente:
“A decorrere dal 1 maggio 2011, i datori di lavoro di cui al comma 1 (ovvero coloro che hanno corrisposto per legge o contratto collettivo il trattamento economico di malattia, con esonero da parte dell’INPS al pagamento dell’indennità – ndr) sono comunque tenuti al versamento della contribuzione di finanziamento dell’indennità economica di malattia in base all’articolo 31 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, per le categorie di lavoratori cui la suddetta assicurazione è applicabile ai sensi della normativa vigente”.
Il nuovo comma 1-bis sembra dunque dire esattamente il contrario del comma 1; ma, in un primo tempo, l’INPS non fa un grinza e con la circolare 28/09/2011 n. 122, illustrativa della legge, al punto 5 esplicitamente chiarisce che “la norma non estende il campo di operatività della normativa in materia di trattamento economico di malattia, bensì si limita a ripristinare l’obbligo di contribuzione in relazione a tutti i lavoratori i quali fossero già inclusi nell’ambito di applicazione della stessa in base alla normativa previdente”.
Passa però qualche anno e qualcuno, come spesso accade, ai piani alti di via Ciro Il Grande fa un’altra riflessione e decide di utilizzare il comma 1-bis per riaprire la questione dei contributi di malattia dei lavoratori ex ENPALS; viene così viene emanata la famigerata circolare n. 124/2017 che, contraddicendo radicalmente e clamorosamente il precedente orientamento del 2011, torna a sancire l’obbligo del versamento contributivo, pur in assenza di prestazioni. Ne nasce un altro vasto contenzioso, tuttora in corso, che ha visto particolarmente coinvolto il Foro di Milano i cui giudici, con diverse sentenze di primo grado e di appello hanno dato ragione alle pretese dell’Istituto, sancendo tale obbligo contributivo, addirittura, fin dall’entrata in vigore del comma 1-bis, quindi con efficacia retroattiva rispetto alla stessa circolare del 2017.
Nessuna di tali pronunce è riuscita tuttavia a fornire una interpretazione soddisfacente che, soprattutto, spiegasse la convivenza, nel menzionato art. 20, di due commi (1 e 1-bis) che dicono, apparentemente, l’uno l’opposto dell’altro. Ma tant’è: tali pronunce si sono sostanzialmente limitate a sancire – inspiegabilmente – la prevalenza del disposto del comma 1-bis.
Ora, indipendentemente, da tali esiti giudiziari, ciò che davvero sorprende è che né i menzionati piani alti né la stessa magistratura del lavoro si siano resi conto che, in un paese normale, un’impresa non può essere soggetta a simili ondeggiamenti interpretativi, non può essere costretta a rivedere i propri bilanci e i propri piani finanziari sulla base di ripensamenti continui. Soprattutto dovrebbero rendersi conto di quanti disagi e quanti danni simili ondeggiamenti possano provocare anche ai professionisti che curano la consulenza di quelle aziende, i quali possono veder minato il rapporto fiduciario con i propri clienti, ai quali non è certo semplice spiegare perché, improvvisamente, si possano trovare esposti al pagamento tardivo di rilevanti importi contributivi, peraltro (addirittura), gravati di sanzioni.
Ecco perché l’ANCL non si è rassegnata a questa situazione avviando, su iniziativa del Consiglio provinciale di Bolzano e del suo presidente Loris De Bernardo, una causa “pilota” patrocinata dall’Ufficio Legale nazionale ANCL. E tale causa ha dato un esito completamente diverso: il Tribunale di Bolzano, con sentenza del 30 maggio 2022 (r.g. 623/2021) ha pienamente accolto le tesi ANCL.
Ciò che più conta è che la sentenza di Bolzano appare molto ben argomentata.
Essa sancisce infatti testualmente quanto segue.
“Sostiene l’INPS che il comma 1 bis ha implicitamente abrogato il comma 1.
Sostiene parte ricorrente che il comma 1 bis ha invece cristallizzato la situazione normativa esistente, impedendo in buona sostanza per il futuro la possibilità di introduzione da parte di nuovi contratti collettivi di esoneri dall’obbligo di versamento di contributi ulteriori rispetto a quelli esistenti al momento dell’emanazione dell’art. 20 cit..
Ancorchè ad una prima lettura la tesi sostenuta dall’INPS appaia più conforme al dato letterale, è di tutta evidenza che l’interpretazione offerta dall’Ente non può essere seguita in quanto non ha alcun senso che il legislatore invece che abrogare espressamente il comma 1 abbia introdotto un comma 1 bis di senso opposto, al fine di abrogare implicitamente il comma precedente.
Inoltre ad una più approfondita lettura della norma, se ne trae che l’esonero è escluso (id est l’obbligo di versare comunque la contribuzione di finanziamento dell’indennità di malattia in base all’art. 31 L. 41/86 permane) non già tout court bensì solo ‘per le categorie di lavoratori cui la suddetta assicurazione è applicabile ai sensi della normativa vigente’.
Quest’ultimo inciso non è casuale.
Lo scrivente concorda con la tesi di parte ricorrente, secondo la quale con il comma 1 bis il legislatore non ha voluto escludere tout court l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, colpendo quindi anche le aziende dello spettacolo in relazione ai contributi per malattia riferiti al personale impiegatizio. Infatti, proprio in base al dato testuale sopra riportato, si deve concludere nel senso che siccome al personale impiegatizio della società opponente, è la società opponente a corrispondere il trattamento economico di malattia in base all’art. 53 del ccnl e siccome la assicurazione per malattia non è applicabile a detto personale in base alla normativa vigente (id est L.138/1943), la società ricorrente non è tenuta “comunque” al versamento dei contributi per cui è causa.
A nulla rileva che la tabella G allegata alla L.41/1986, richiamata dall’INPS, indichi un’unica aliquota per i lavoratori dello spettacolo senza operare alcun distinguo tra operai e impiegati, in quanto il distinguo (se così si può dire) è operato a monte dallo stesso titolo della tabella che prevede l’applicazione ai soli lavoratori dello spettacolo “aventi diritto” all’indennità di malattia, id es agli operai (cfr. doc.7 INPS “tabella G contributi a carico dei datori di lavoro per i soggetti aventi diritto alle indennità economiche di malattia”).
Se l’obiettivo della norma del 2011 fosse stato quello di estendere alle aziende dello spettacolo l’obbligo contributivo anche per il personale impiegatizio tout court, sarebbe stato più agevole modificare esplicitamente la previsione del successivo comma 2, istitutiva dell’obbligo per il personale operaio ovvero modificare la norma di interpretazione autentica di cui al comma 1. pagina 14 di 15
L’esegesi sostenuta dall’INPS lascia un contrasto insanabile fra il comma 1 e il comma 1-bis.”.
La sentenza, quindi, riesce a dare una spiegazione ragionevole alla coesistenza del comma 1 e del comma 1-bis, mentre tutte le altre pronunce intervenute sull’argomento si erano limitate a dare immotivatamente prevalenza a quest’ultimo, ignorando il comma 1.
Proprio perché così ben argomentata, la sentenza sembra in grado di riaprire la questione.
Nel frattempo, però, il danno è già stato in gran parte fatto.
Molte aziende, infatti, hanno pagato senza formulare riserva di ripetizione.
La stessa contrattazione collettiva si è trovata in gravi difficoltà, come testimoniato, ad esempio, dal disposto del CCNL delle Emittenti radiotelevisive private del 19 dicembre 2017 che, all’art. 53, ha testualmente disposto: “Il lavoratore ha diritto, ad integrazione di quanto erogato dall’Istituto previdenziale, laddove l’Istituto stesso eroghi la relativa indennità di malattia, all’intera retribuzione ordinaria netta (compresi i primi 3 giorni) per i primi 6 mesi; per i successivi 6 mesi ad un importo pari alla metà della retribuzione ordinaria netta ed alla conservazione del posto senza retribuzione per gli ulteriori tre mesi.
In considerazione delle incertezze interpretative dell’attuale quadro normativo circa la sussistenza o meno dell’obbligo da parte delle Aziende classificate nel settore dell’Industria dello Spettacolo di versamento del contributo malattia all’Inps per gli impiegati dipendenti, le Parti convengono che il trattamento economico di malattia, anticipato dalle imprese, verrà erogato dall’Istituto Previdenziale per i dipendenti di quelle Aziende che versano il suddetto contributo e direttamente dai datori di lavoro in caso contrario.”
L’art. 35 del CCNL aziende cinematografiche del 9 luglio 2019, inoltre, ha disposto: “L’Azienda corrisponderà ai lavoratori una integrazione pari alla differenza fra l’indennità corrisposta dall’Istituto assicuratore e la normale retribuzione globale di fatto netta, in modo che il lavoratore, fra trattamento corrisposto dall’Istituto assicuratore e indennità corrisposta dal datore di lavoro, venga a percepire complessivamente il trattamento economico di cui alla tabella precedente”.
Queste clausole della contrattazione collettiva, sintomo di una incertezza e di un disagio diffusi, potrebbero complicare ulteriormente la situazione: non appare più chiaro, infatti, se la condizione sancita dalla legge per determinare l’esonero contributivo (obbligo del datore di lavoro di versare la retribuzione per le giornate di malattia) sia tuttora sussistente o meno.
L’Ufficio Legale dell’ANCL continuerà la sua battaglia in tutte le sedi giudiziarie. Ma, in queste condizioni, si impone un ulteriore intervento del legislatore a chiarimento definitivo della questione. Nel frattempo, ogni versamento contributivo per malattia degli impiegati dello Spettacolo è opportuno venga effettuato con riserva di ripetizione.
Avv. Francesco Stolfa