Corte di Giustizia: il principio di parità di trattamento è invocabile davanti al Giudice Nazionale

Da rivedere (o giustificare) tutti gli inquadramenti di favore e i superminimi individuali

La Corte di Giustizia Europea nella sentenza allegata, pronunciata il 3 giugno 2021 (causa C‑624/19), ribadisce con forza il principio di parità di trattamento retributivo fra uomini e donne che svolgano il “medesimo lavoro” o lavori “di pari valore”, attribuendo alla norma applicata (art. 157 del Trattato) carattere imperativo e quindi invocabile direttamente davanti al giudice nazionale.

La Corte, peraltro, aggiunge che “detto articolo stabilisce il principio secondo cui uno stesso lavoro o un lavoro a cui è attribuito pari valore deve essere retribuito nello stesso modo, sia esso svolto da un uomo o da una donna, principio che costituisce l’espressione specifica del principio generale di uguaglianza che vieta di trattare in maniera diversa situazioni analoghe, a meno che tale differenza di trattamento non sia obiettivamente giustificata (v., in tal senso, sentenza del 26 giugno 2001, Brunnhofer, C‑381/99, EU:C:2001:358, punti 27 e 28 e giurisprudenza citata) e che esso “costituisce uno dei principi fondamentali dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 3 ottobre 2006, Cadman, C‑17/05, EU:C:2006:633, punto 28 e giurisprudenza citata)”.

La valutazione in ordine alla parità di valore o alla identità delle due posizioni lavorative a confronto è questione che viene rimessa alla valutazione del giudice statale.

Alla luce di tale giurisprudenza, che appare consolidata, ogni azienda è chiamata a verificare se nel suo organico sussistono situazioni che possano essere considerate violazione dell’art. 157 TFUE poichè ciò le esporrebbe a rivendicazioni immediatamente tutelabili in sede giudiziaria. Il problema involge, quindi, soprattutto i trattamenti eccedenti il minimo contrattuale perchè ove si fosse in presenza di una violazione di tale minimo la posizione del lavoratore sarebbe tutelabile semplicemente chiedendo l’applicazione della contrattazione collettiva. Più rilevante appare quindi il problema sia per le cosiddette “qualifiche convenzionali” (inquadramenti di favore rispetto alle mansioni effettivamente svolte) sia per eventuali superminimi individuali ove risultino differenze di trattamento fra posizioni lavorative uguali o di uguale valore. Alla luce delle statuizioni della sentenza allegata tali differenze risultano peraltro rischiose non solo quando intervengano fra lavoratori di sesso diverso ma anche quando creino discriminazioni fra lavoratori dello stesso sesso, essendo ormai affermato a livello europeo il principio generale di parità di trattamento.

Ciò impone alle aziende una revisione del trattamento dei propri dipendenti essendo consigliabile, a questo punto, almeno in via prudenziale, che ogni trattamento individuale diversificato (che si tratti di un superminimo o di un inquadramento convenzionale o di varie indennità o anche di semplici benefits) venga nel contratto di lavoro adeguatamente giustificato sulla base di parametri e criteri di carattere oggettivo. Da evitare invece voci retributive che compaiono con diciture vaghe o indecifrabili nei prospetti retributivi. E’ opportuno che ogni voce retributiva venga  prevista e adeguatamente giustificata nel contratto individuale di lavoro che deve riacquisire, nell’ambito di una corretta gestione del personale, una assoluta centralità, come avviene per qualsiasi relazione economico/sociale di un certo rilievo.

 

Avv. Francesco Stolfa
Studio Legale Associato Stolfa Volpe

Pin It on Pinterest