Assenze ingiustificate per farsi licenziare? Il lavoratore deve rimborsare all’azienda il ticket NASPI

Una sentenza del Tribunale di Udine pone finalmente i presupposti per porre fine ad una pratica diffusissima e scorretta.

Nelle aziende capita molto frequentemente che il lavoratore manifesti la propria volontà di dimettersi ma pretenda anche di essere licenziato per non perdere il diritto alla Naspi e, se l’azienda si rifiuta, il lavoratore “pensa bene” di assentarsi dal lavoro senza fornire alcuna giustificazione, così da costringere l’azienda a licenziarlo per giusta causa. Tale effetto deriva anche dalle formalità che il legislatore, sebbene per una giusta causa, ha imposto all’atto di dimissioni, per cui la semplice assenza prolungata non consente di ritenerle perfezionate tacitamente come si riteneva una volta.

Oltre al danno – rappresentato dai problemi organizzativi che una simile condotta più comportare – anche la beffa, perché, come noto, secondo l’interpretazione corrente (in sede amministrativa), anche in caso di licenziamento per giusta causa è dovuto il cd. ticket di licenziamento previsto dall’art. 2, co. 31, ss., L. 92/2012.

In un caso del genere la sentenza del tribunale di Udine (pronunciata il 30 settembre 2020) afferma: “Nell’ipotesi in cui il giudice accerti che il dipendente, pur non dimettendosi, abbia posto il datore di lavoro in condizione di procedere al licenziamento, l’onere del pagamento del ticket NASpI dovrà essere sopportato esclusivamente dal primo”. Il Giudice, dunque, ha disposto che il datore di lavoro possa trattenere un importo corrispondente a quello versato all’INPS a titolo di ticket di licenziamento, dalle spettanze di fine rapporto spettanti al lavoratore.

La sentenza non è recentissima e se ne è avuta notizia solo a seguito della sua pubblicazione su una importante rivista scientifica (Giurisprudenza Italiana, n. 3, 1 marzo 2021, p. 656) ove essa è apparsa con il commento di una studiosa (Enrica De Marco) che ha evidenziato la grave contraddizione creatasi a seguito della pronuncia di Udine, in quanto, pur avendo il Giudice accertato che non di licenziamento si trattava bensì di dimissioni, l’INPS, che non era parte nel giudizio, ha incassato il contributo e ha erogato la Naspi.

La studiosa mette, come si dice, il dito nella piaga. Non si comprende, infatti, per quale ragione si debba riconoscere al lavoratore una provvidenza assistenziale anche quando non sia stato licenziato ma si sia dimesso. Nel caso esaminato dal giudice di Udine è fin troppo evidente che il licenziamento non esiste e che è stato il lavoratore a voler interrompere il rapporto di lavoro. Lo ha pienamente dimostrato l’istruttoria. Ma la domanda reale che bisogna porsi e se, in generale, sia giusto spendere risorse pubbliche per erogare la Naspi anche quando il lavoratore abbia in qualche modo provocato il licenziamento. Nella storia della indennità di disoccupazione, fino al 2012, essa è sempre stata sempre riconosciuta solo in caso di disoccupazione involontaria e, conseguentemente, mai essa era stata prevista in caso di licenziamento per giusta causa. L’estensione a tale fattispecie di licenziamento è avvenuta solo a seguito della novella del 2012 sulla base di una interpretazione davvero forzata e miope da parte del Ministero e dell’INPS che ha portata a un assurdo spreco di risorse pubbliche. Di fatto, da quel momento, infatti, l’istituto delle dimissioni è pressoché scomparso nel nostro sistema economico: esse sono diventati altrettanti licenziamenti (in gran parte fittizi).

A questo punto, data la “breccia” aperta da tale pronuncia di merito, ci si augura che il Ministero o l’INPS abbiano un salutare ripensamento esegetico oppure che il legislatore intervenga espressamente per escludere dalle ipotesi di “cessazione del rapporto di lavoro” che legittimano il pagamento da parte dell’INPS della NASPI e fondano l’obbligo per il datore di corrispondere il ticket di licenziamento, tutti i licenziamenti per giusta causa o, quantomeno, quelli per assenza ingiustificata. In mancanza, la strada sarà ancora quella del ricorso al giudice, magari chiamando in causa anche l’INPS.

 

Avv. Francesco Stolfa
Avv. Danilo Volpe

Studio Legale Associato Stolfa Volpe

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