La Corte di Cassazione Penale, Sez. IV, con sentenza pubblicata il 25 settembre 2023 (qui il testo), ha ritenuto il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di cui agli artt. 47 ss. del D. Lgs. 81/2008 responsabile, a titolo di cooperazione colposa con il datore di lavoro ex art. 113 c.p., del reato di omicidio colposo per un infortunio occorso a un collega di lavoro. La Corte, confermando peraltro i pronunciamenti di primo e secondo grado, ha ritenuto la responsabilità del RLS per non aver questi ottemperato ai “compiti” attribuiti ad esso RLS dall’art. 50 del medesimo decreto legislativo,
Per la prima volta la Cassazione sancisce così un principio che contraddice quanto sostenuto finora dalla unanime dottrina. Il silenzio della giurisprudenza finora sul punto era stato ritenuto semplicemente il segno che la problematica fosse pacifica; nel senso che la legge sancisse per il RLS solo di diritti e non, invece, come ritentato ora dalla Cassazione, veri e propri doveri giuridici penalmente sanzionati.
La pronuncia ha avuto molto risalto sui media e sulla pubblicistica specializzata gettando nello sconcerto aziende ed esponenti sindacali. Si tratta – come già detto – di una pronuncia che rappresenta un unicum nel panorama giurisprudenziale ma che, proprio per questo, assume una rilevanza notevole e deve quindi essere presa in attenta considerazione da tutti gli operatori. Essa rappresenta, anche, una pesante interferenza nel libero dispiegarsi delle relazioni sindacali aziendali, nell’ambito delle quali si collocano le funzioni del RLS che, è bene rammentarlo, svolge un ruolo squisitamente sindacale e nelle aziende di maggiori dimensioni è addirittura inserito nell’ambito della RSU.
Come comportarsi, dunque, da questo momento in poi?
La sentenza non va né sottovalutata né sopravvalutata.
Essa costituisce indubbiamente un precedente importante anche perché conclude un iter processuale nell’ambito del quale ben tre organi giudicante si sono espressi, nei vari gradi, in modo conforme per la colpevolezza del RLS. Essa, tuttavia, come è noto, nel nostro ordinamento giuridico (nel quale non vige la regola dello “stare decisis”, tipica degli ordinamenti di common law) non è vincolante.
La parte della sentenza spesa per motivare l’importante quanto inopinato principio appare davvero scarna e poco approfondita.
A ciò si aggiunga che la pressoché unanime dottrina (oltreché la pubblicistica specializzata) ha fortemente criticato la pronuncia, prendendone nettamente le distanze sul piano interpretativo. Un vero coro di dissensi di cui si trova un’eco significativa nel n. 2/2023 della bella rivista scientifica ”Diritto della Sicurezza del Lavoro”, diretta dal prof. Paolo Pascucci, pubblicata on line dall’Osservatorio Olympus dell’Università di Urbino (consultabile liberamente qui: https://journals.uniurb.it/index.php/dsl/article/view/4344), con saggi dello stesso Pascucci, di A. Ingrao, F. Contri, B. Deidda, P. Brambilla, R. Palavera.
Si preannunciano anche altri interventi dottrinali con lo stesso taglio, fra i quali, su “Giurisprudenza Italiana” (per i non addetti ai lavori: altra storica e prestigiosa rivista scientifica) è in corso di pubblicazione un saggio dei sottoscritti avvocati che esamina la questione con un taglio spiccatamente lavoristico e in cui si auspica anche un intervento chiarificatore da parte del legislatore.
Tutto ciò induce a pensare che non sia affatto scontato che altre procure o altri giudici seguiranno le orme della pronuncia in esame. Sul piano operativo, quindi, è il momento di mantenere il proverbiale “sangue freddo”. Specie le organizzazioni sindacali e le associazioni di categoria, in questa delicata fase, possono svolgere un ruolo essenziale per una corretta e ragionevole analisi della situazione e per una realistica valutazione degli effetti della pronuncia. Si può, infatti, ragionevolmente sperare che in tempi brevi la situazione potrà chiarirsi.
Avv. Francesco Stolfa e Avv. Anna Campione