“Il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto e’ ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa; nell’ipotesi in cui il datore eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore e all’esito dell’istruttoria – da condurre anche tramite i poteri officiosi ex articolo 421 c.p.c. – perduri l’incertezza probatoria, la domanda del lavoratore andrà respinta in applicazione della regola residuale desumibile dall’articolo 2697 c.c.”
La Corte di Cassazione (v. punti 5 e 6 della motivazione), nel ribadire questo principio (sancito in precedenza da Cass. 08 febbraio 2019 n. 3822 di cui riprende la massima, consolidandone così l’orientamento esegetico innovativo), in pratica, accolla al lavoratore l’onere di provare che il rapporto di lavoro sia cessato per iniziativa del datore di lavoro. Al datore di lavoro è quindi sufficiente sostenere la tesi delle dimissioni per addossare al lavoratore un onere probatorio piuttosto pesante: egli dovrà provare non solo la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato ma anche che esso si sia interrotto per decisione del datore di lavoro. Nel caso di specie i giudici di merito, oltre ad altri elementi probatori, avevano valorizzato la deposizione di un teste che aveva dichiarato di essere stato presente quando il datore di lavoro aveva chiamato la lavoratrice “… e le ha detto di non presentarsi più al lavoro”.
In mancanza di tale prova il lavoratore si vedrà rigettare la domanda.
In passato l’orientamento dominante era invece nel senso che l’onere di provare la causa di cessazione del rapporto incombesse al datore di lavoro.
Avv. Francesco Stolfa
Studio Legale Associato Stolfa Volpe